Vocalizzazione ed evoluzione - MAURO UBERTI

14.11.2013 18:56

    Che la gola dell'uomo non si sia formata per cantare, ma che la fonazione sia una funzione di adattamento di organi destinati a funzioni primarie ben diverse, è nozione talmente scontata in ambito biologico che richiamarla in sede scientifica rischia di suonare banale. Tuttavia rivisitare l'insieme delle conoscenze sulla comunicazione vocale tenendo presente questo presupposto può essere occasione di stimolanti meditazioni.

     Gli organi e gli apparati che partecipano alla fonazione hanno tutti, dal punto di vista filogenetico, un'origine, uno sviluppo ed una destinazione affatto diversa da quella del parlare: gli organi della produzione del fiato nascono come parti del meccanismo di approvvigionamento dell'ossigeno necessario alla respirazione chimica; la laringe compare nei Mammiferi come saracinesca tra il serbatoio polmonare e l'ambiente esterno; quello che in fonetica viene chiamato «canale vocale» corrisponde quasi per intero alla prima parte del canale alimentare; gli organi dell’articolazione buccale sono considerati in altra sede come componenti dell'apparato masticatorio; la cavità di risonanza nasale è data dalle prime vie respiratorie ed il velo palatino, che agisce da divisore per immettervi od escluderne la corrente fonatoria, ha la funzione primaria di impedirvi il riflusso del cibo durante la deglutizione.

     Considerati invece dal punto di vista della parola e del canto, questi organi dalle funzioni così disparate sembrano essersi formati ad un unico fine ed appaiono ben organizzati a costituire le tre sezioni distinte e complementari dell'apparato fonatorio: il mantice, il generatore di suono ed il tubo di risonanza. Tuttavia, per quanto ci si sforzi, non si riesce ad individuare uno solo di essi, che mostri di aver subito un adattamento particolare agli scopi vocali.

     Il mantice che, nel suo insieme, svolge un'azione così graduabile da consentire ogni tipo di emissione sonora deve la sua attitudine a svolgere i compiti vocali più diversi al fatto che la mobilità della gabbia toracica è una caratteristica importante nell'ammortizzare gli sforzi delle braccia almeno quanto nell'ispirare aria. A dire il vero, nei Mammiferi, che sono la prima e unica classe di Vertebrati nei quali compaia un vero diaframma, la componente costale della respirazione parrebbe aver perso molto del suo significato; è ben noto, infatti, come incida di più sulla capacità respiratoria la componente diaframmatica. Quando si ricordi invece che le braccia non sono saldamente articolate all'asse scheletrico come gli arti inferiori, ma che vi sono collegate indirettamente tramite il cinto scapolare, diviene inevitabile considerare come l'attitudine al lavoro degli Ominidi, a partire dall'Homo habilis, sia dovuta in ragguardevole parte alla funzione di ammortizzatore dell'apparato respiratorio nel suo complesso. Infatti, sia che si tratti di compiere sforzi violenti, come il tiro di una lancia e l'uso di un'ascia, oppure di impegnarsi in lavori di fino come guidare una sgorbia nello scolpire il legno, soltanto una valida azione ammortizzatrice può a volta a volta evitare traumi da sforzi violenti o consentire la necessaria delicatezza nell'uso della forza.

     Possiamo anche immaginare che il problema della dicotomia fra solidità ed ammortizzazione si sia posto al primo nascere della classe dei Mammiferi. Un'ipotetica evoluzione del cinto scapolare, svolta in analogia a quella del cinto pelvico (saldatura di sterno, clavicole e scapole con le vertebre costali ed irrigidimento della gabbia toracica) avrebbe potuto, a prima vista, essere vantaggiosa per animali che sostengono il peso del tronco su quattro zampe, anziché appoggiarlo a terra come fanno Sauri e Loricati. Tuttavia, quando si pensi agli urti subiti dal torace ad ogni passo o, peggio, ad ogni atterraggio nel galoppo, appare evidente che i vantaggi dell'ammortizzazione prevalgono nettamente su quelli della solidità. Non sappiamo se, dopo gli studi cronofotografici del Muybridge e del Marey sul movimento animale, sia stato affrontato con gli stessi metodi anche quello della respirazione; è però certo che uno studio comparato della meccanica di questa funzione nelle diverse condizioni di moto sarebbe un ampio e interessante campo di osservazione.

     Un'adattabilità così spinta del sistema di ammortizzazione brachiale si spiega soltanto con l'esistenza di una valvola dalla meccanica altamente sofisticata qual è la laringe. Destinata a volta a volta a costituire l'adito più ampio possibile all'aria durante una corsa, a far da chiusura ermetica durante il sollevamento di un peso o a regolare la sfuggita del fiato durante l'ammortizzazione di uno sforzo, presenta strutture scheletriche e muscolari che le consentono di passare rapidamente - e tuttavia insensibilmente - da una funzione all'altra.

     Forse il maggior fattore di flessibilità operativa è dato dal grado di libertà della cartilagine tiroide e dall'antagonismo tra i suoi muscoli inclinatori e retrattori. La sola forza di accollamento delle corde vocali non potrebbe garantire la resistenza alla pressione sottoglottidea richiesta alla laringe dal banale sforzo della defecazione; è necessario, invece, che le corde vocali si possano accorciare ed ingrossare premendo contro le pareti interne della cartilagine tiroide per costituire una sorta di tappo a pressione. A questo fine occorre che la distanza fra le opposte inserzioni delle stesse si riduca per la rotazione all'indietro e in alto di questa cartilagine, ma è anche necessario che tale distanza non si riduca di troppo e ciò viene garantito dall'azione antagonista dei muscoli cricotiroidei e sternotiroidei. Gli stessi muscoli, agendo mentre le corde vocali sono rilassate, inclinano la cartilagine tiroide in avanti quando occorre allungare al massimo il diametro sagittale dell’apertura glottidea (se lo richiede il debito di ossigeno o, semplicemente, uno sbadiglio) ma, per quanto tale meccanismo, quando entra in funzione a corde vocali accollate - come avviene nella produzione delle note del registro superiore - paia progettato apposta per consentire alla Regina della Notte di produrre i suoi Fa sopracuti, sarebbe arduo sostenere che l'evoluzione della laringe si sia svolta in funzione del Flauto magico di Mozart.

     Lo stesso vale per gli altri due registri: quello medio - corrispondente allo stiramento passivo, all'indietro, delle corde vocali - e quello inferiore, dato dalla contrazione attiva delle stesse. Il primo, che almeno nel canto, comprende la gamma più estesa di suoni vocali, ha una funzione occlusiva, variabile con continuità tra la chiusura totale della valvola respiratoria e la regolazione dell'ammortizzazione. Nel caso della chiusura totale i muscoli cricotiroidei laterali garantiscono la solidità dell’inserzione posteriore dei due elementi occlusori (le corde vocali); in quello dell’ammortizzazione, invece, l’effetto ammortizzatore può essere limitato alla sfuggita dell'aria dallo spiraglio del triangolo interaritenoideo, fino all'apertura parziale o totale della glottide.

     La contrazione attiva delle corde vocali che, come abbiamo visto, provocando l'ingrossamento delle stesse, è la componente più importante della funzione di occlusione, consente di produrre le cinque o sei note più basse della gamma vocale, corrispondenti al registro inferiore o «di petto» e, verosimilmente, interviene poi nella determinazione fine dell'altezza tonale in tutta l'estensione. Verosimilmente, si è detto; perché quasi ogni affermazione sulla meccanica della laringe non può essere fatta che a titolo di deduzione da osservazioni indirette del comportamento fonatorio, in quanto i mezzi attuali di ricerca non ci consentono di compiere misurazioni elettromiografiche dirette e valide per ovvii ed evidenti motivi.

     La controprova della primarietà della funzione occlusiva della laringe è esperienza quotidiana; basta, infatti, che qualcuno ci faccia ridere durante uno sforzo muscolare perché noi «perdiamo le forze»: il riso provoca l'apertura della valvola glottidea, la sfuggita dell'aria e la perdita della solidità da parte della gabbia toracica.

     Che poi il meccanismo di occlusione del mantice respiratorio si presti splendidamente alla produzione di suoni è una meraviglia in più, da aggiungere all’elenco di quelle di cui è prodiga Madre Natura. Sotto questo punto di vista il comportamento della laringe non è dissimile da quello delle labbra buccali che, munite dello strumento musicale opportuno possono dare complessivamente suoni per un totale di 70 semitoni [dal Si bem. contrabbasso (=61,73 Hz) della tuba contrabbassa, al Sol sopracuto (= 1568 Hz) della tromba in Fa acuto] o, più semplicemente (chiediamo scusa per l'apparente volgarità dell'esempio) dei pernacchi.

     L'argomento è, contrariamente a ciò che parrebbe a prima vista, molto serio, perché dimostra l'intrinseca povertà comunicativa di un generatore di suoni, di cui pure siamo dotati, ma che è privo di un risuonatore a valle. E noto che in ambiente napoletano il pernacchio è la base di un vero e proprio, per quanto limitato, vocabolario. Un pernacchio può, a volta a volta, costituire richiamo, saluto scherzoso, segno di disprezzo ecc. La sua povertà come sistema di comunicazione è quella di non poter essere, se non limitatamente, modulato, mentre abbiamo visto quali potenzialità abbiano le labbra se integrate da un risuonatore artificiale.

     La fortuna della laringe come anello fondamentale del sistema di comunicazione verbale dipende dal fatto di trovarsi in fondo al canale vocale. Se la nostra trachea sboccasse al limite esterno della bocca, come avviene negli Ofidi (in una situazione, cioè, molto vicina a quella in cui operano le labbra in quanto generatori di pernacchi-segnali), o si continuasse direttamente nelle fosse nasali attraversando come condotto separato la faringe, come avviene nei Cetacei (senza, cioè, che il segnale fondamentale possa essere modulato dalla variabilità del canale vocale) non vi sarebbe stata alcuna possibilità di sviluppo del linguaggio verbale.

     Ma non è il caso di andare a cercare situazioni così estreme. Nella quasi totalità dei Mammiferi - dal meno evoluto Echidnide alla Scimmia antropomorfa più vicina a noi - la laringe si trova al fondo della prima parte del canale alimentare, cioè di un tubo di risonanza, variabile per larghezza, forma e volume. In effetti la varietà dei suoni prodotti da un certo numero di specie è notevole. Pur tuttavia il numero dei segnali significativi in uso presso ognuna di esse non sembra allontanarsi di molto da quella del nostro sistema di comunicazione a pernacchi; si direbbe, anzi, che il linguaggio mimico sia ampiamente preferito. E il caso del Cane che, pur essendo dotato della ben nota serie di possibilità vocali, ha sviluppato un linguaggio mimico intra- ed extra-specifico (nel quale entrano in gioco bocca, orecchie, pelo, coda ecc.) molto più ricco.

     Il caso più sconcertante è quello dello Scimpanzè. Con un seguito di esperimenti, condotti con criteri diversi fin dagli anni '30, è stata dimostrata in questa Scimmia (ma, dal 1972, anche nel Gorilla) una notevole capacità di comunicazione a gesti, per mezzo di simboli grafici e persino per mezzo di un computer espressamente costruito. Washoe, una femmina alla quale era stato insegnato il linguaggio dei sordomuti americani, giunse a possedere un vocabolario di 160 parole, alcune delle quali inventate da lei stessa; inoltre, la sua capacità di comprensione dei segnali superava di molto la sua abilità «oratoria». L'insieme delle esperienze finora condotte dimostra che lo Scimpanzè non soltanto è capace di abbinare un suono o un gesto o un simbolo grafico a un oggetto, a un desiderio, a una sensazione ecc., ma anche di essere in possesso delle categorie logiche del condizionale, del negativo e dell'interrogativo, di fare astrazioni e di descrivere con gli aggettivi opportuni oggetti non presenti. La Gorilla Koko dimostrò anche di essere capace di mentire per evitare punizioni e di saper fare, quindi, un uso consapevole del linguaggio.

     Però, quando i coniugi Hayes, psicologi, tentarono di insegnare l'inglese a un'altra femmina di Scimpanzè, Viki, la loro allieva adottiva arrivò alla pronuncia di quattro parole soltanto: mama, papa, cup e up (mamma, babbo, tazza e su), che in realtà, nonostante le diversità di scrittura, comportano la pronuncia della sola vocale «a» e venivano comunque emesse con grande fatica. Tuttavia Viki rimane il Cicerone degli Scimpanzè.

     Vi è dunque una contraddizione stridente fra le autentiche, per quanto modeste, capacità linguistiche dimostrate da questo Primate in campo mimico e grafico e la sua difficoltà a produrre i corrispondenti segnali fonetici.

     La prima e più plausibile risposta che venga fatto di dare a chi si ponga il perché di questo fatto è di ordine neurologico. Le zone cerebrali preposte al linguaggio sono: la prima circonvoluzione temporale, il lobo parietale inferiore, l’area di Broca e la zona superiore dell'area supplementare motrice del frontale. Il lobo parietale - che, nella produzione del linguaggio verbale, pare sia la più importante - è assente o rudimentale nelle Scimmie, in quanto si è sviluppato nel Pleistocene medio, in coincidenza con l'aumento della capacità cranica degli Ominidi.

     Sarebbe venuto a mancare, quindi, ai Primati non umani il maggior centro di coordinamento del linguaggio. Ma l'area di Broca che, nell'uomo, controlla il movimento dei muscoli delle labbra, della mandibola, della lingua, del palato molle e delle corde vocali, è presente anche nelle Scimmie, nelle quali controlla i muscoli della laringe e della lingua, così come è stato dimostrato con esperimenti fondati su stimolazioni elettriche. Siamo costretti nuovamente, quindi, a chiederci perché soltanto l'uomo sia dotato di un linguaggio fonetico.

     A questo punto il problema si sposta e diventa quello di sapere quali siano state le spinte evolutive che possono aver selezionato nell'uomo gli individui dotati di dispositivi neurali più sviluppati e perché non altrettanto sia avvenuto nelle Scimmie. Ci convince poco la tesi secondo la quale gli Scimpanzè comunicano fra di loro soprattutto con il linguaggio mimico, per non segnalare con la voce la loro presenza ad eventuali predatori e perché, non svolgendo abitualmente attività venatoria di gruppo, avrebbero poca necessità di scambio di informazioni. Gli Scimpanzè, come altri Primati non umani, comunicano fra di loro in tante altre occasioni, e individuare quella mancata della caccia come una delle due cause di un così grande risultato negativo ci pare eccessivamente riduttivo. Inoltre i segnali vocali sono troppo più economici - in tutti i sensi - di quelli mimici per pensare che la rinuncia a questo tipo di comunicazione sia imputabile alle cause suddette. Del resto, le conoscenze attuali sull'effetto dell'ambiente sullo sviluppo ontogenetico dell'encefalo sono tali da dar ragione dello sviluppo del linguaggio nell'uomo nel giro di relativamente poche generazioni, pur nei limiti costituiti dalle leggi genetiche e della selezione. Tutt'al più dovremo ipotizzare, come ha fatto Falk, una fertilità differenziale per gli individui con maggiore capacità di sviluppo neurale sotto l'influenza dell'ambiente.

     Ma, poiché «ambiente» significa tutto ciò che circonda l'individuo, compresi i suoni da lui stesso prodotti, la risposta che cerchiamo può essere cercata nell’evoluzione dell'apparato buccale in seguito al passaggio alla stazione eretta, tenuto conto della funzione del canale vocale nella produzione della parola. Ricordiamo che le vocali non sono altro che modulazioni timbriche del suono glottideo. La voce percorre il canale vocale e questo che, nella faringe e in bocca, si allarga in due ampie cavità di risonanza, ne amplifica regioni di frequenza diverse, a seconda dell'ampiezza e della forma che il comportamento articolatorio impone loro di volta in volta. Le consonanti, poi, sono costituite principalmente da modulazioni transitorie delle vocali, ottenute con variazioni ulteriori e di brevissima durata nella forma del canale vocale, date dalle occlusioni articolatorie.

     Affinché un sistema di segnali possa essere usato come codice in modo economico occorre anzitutto che questi siano distinti e invariabili; occorre, cioè, che, come si richiede ai segnali vocali, essi siano dotati di «stabilità acustica». In effetti i segnali vocali emessi dall'uomo soddisfano a questa esigenza. Con il passaggio alla stazione eretta il canale vocale si è piegato ad angolo retto dividendosi, come si è detto, in due grandi cavità, mentre quella faringea, in particolare, si è ampliata sensibilmente. Queste condizioni consentono all'uomo la produzione spontanea e senza sforzo di suoni dal timbro distinto e costante. Basta, infatti, spingere in avanti o retrarre la lingua durante l'emissione di un suono, per ottenere, anche senza volerlo, la produzione di una «i» e una «a». L'emissione del suono con le labbra atteggiate come nella suzione produce invece una «u». Tre suoni vocalici, sommati alle occlusioni consonantiche ottenute con gli atteggiamenti articolatori dati dalle funzioni vegetative sono già ampiamente sufficienti a produrre segnali vocali più comodi e ben più numerosi di quelli mimici attualmente e spontaneamente usati dallo Scimpanzè (vi sono lingue che fanno uso, appunto, di tre fonemi vocalici soltanto).

     E ragionevole pensare che la disponibilità di un materiale fonetico di questo tipo, a così buon mercato per quanto riguarda lo sforzo intellettuale necessario a produrlo, sia stato stimolo ad affiancare, dapprima, e a sostituire, poi, i segnali mimici con quelli acustici. Gli esseri capaci di produrre questi suoni stabili devono aver avuto un vantaggio su quelli che non lo potevano e vi deve essere stato un fenomeno di selezione che favoriva gli individui i cui centri nervosi consentivano una maggiore abilità fonetica.

     Le tracce dell'evoluzione del sistema fonatorio non sono quindi da cercare negli organi viscerali che lo compongono, ma nella regione parieto-temporale che lo coordina. Preso isolatamente, ognuno di essi conserva la forma e la struttura più opportune per svolgere le funzioni di tipo vegetativo per cui si era formato.